Dai cantieri da l’arse officine. Basta morti sul lavoro!

Non è la prima volta che su queste pagine si pubblicano articoli in merito alle morti sul lavoro. Iniziando questo intervento, la mia prima preoccupazione è stata quella di non scrivere banalità su un tema tanto grave. Cercherò di non farlo, perché riguarda persone come tutt* noi. Persone che escono la mattina per andarsi a guadagnare un salario sempre più miserabile e rimangono uccise mentre lavorano per un numero di ore sempre maggiore, a ritmi sempre più pressanti, o mentre tornano a casa sfinite e si fracassano contro un muro o un’altra vettura. Ognuna di queste persone era genitore, sposa, figlia, amica di qualcuno. La loro morte lascia migliaia di altre persone nel dolore e nello sconforto della perdita, nella rabbia per l’ingiustizia. La causa di tutto non è da ricercare in chissà quali complicate motivazioni e congiunture, ma unicamente nella fame di profitto delle imprese, di fronte alla quale scompare ogni scrupolo.

E allora scriviamolo che non di generiche morti si tratta, ma di omicidi sul lavoro. Ogni persona che perde la vita sul lavoro è vittima di un omicidio. L’unico termine che dovrebbe essere abolito quando si parla di questo argomento è “incidenti”. Non c’è nulla di casuale, nulla di incidentale nella morte sul lavoro.

I dati INAIL parlano chiaro: nel 2024 1090 persone sono morte di lavoro, il 4.7 % in più rispetto all’anno precedente. Di queste, 285 sono state le morti in itinere, il 18% in più rispetto al 2023. Solo nei primi tre mesi del 2025 si contano 205 morti, di cui 59 in itinere. E fra questi, cinque erano studenti, impegnati anche nello scellerato progetto di alternanza scuola-lavoro.

A cavallo del Primo Maggio cinque lavoratori sono stati sacrificati sull’altare del profitto, da un cavatore di Carrara fino a un operaio pugliese folgorato dalla corrente, giusto prima che mi mettessi a scrivere queste righe. Un altro operaio è morto in Veneto. Era un lavoratore di grande esperienza, ed è stato risucchiato dagli ingranaggi di un macchinario dopo una caduta, questa sì a quanto pare accidentale. In tutti questi casi, dove erano le misure di protezione? Come è possibile che degli ingranaggi riescano ad agganciare e risucchiare chicchessia quando dovrebbero essere coperti da carter o altre protezioni? Come è possibile che gli impianti siano in tensione mentre ci si lavora? La sola risposta che possiamo dare è che tutto questo è possibile perché le protezioni, ma più in generale le misure di sicurezza e prevenzione, anche quelle organizzative e non solo quelle fisiche, danno fastidio ai padroni perché – semplicemente – costano. Costano per acquisto e messa in opera se sono apparati fisici o tecnologici, ma costano anche e soprattutto perché rallentano la produzione. Come la rallentano i comportamenti corretti. E allora le protezioni si acquistano sì, ma non si montano o, meglio, si montano solo in caso di ispezione, per dimostrare di “essere in regola”. E i comportamenti corretti semplicemente non si adottano. Così la produzione corre, e i profitti entrano nelle casse.

L’accozzaglia fascioleghista che compone l’attuale governo, per far finta di voler arginare gli infortuni nell’edilizia, si è inventata una specie di patente a punti per le imprese; inutile stare a descriverla, perché è una buffonata colossale: intanto, le aziende vengono preavvisate dieci giorni prima dei controlli e così possono “mettersi in regola” prima che arrivino gli ispettori, che, quando arrivano, non si possono mettere certo a indagare sulle catene di appalti e subappalti, ma si limitano a controllare la documentazione e via. Un approccio puramente formale, che discolpa totalmente le aziende fornendo loro un alibi preconfezionato per nutrire ispettori e avvocati.

Questo tipo di approccio lo ritroviamo anche in altri campi -uno fra tutti quello ambientale- ed è sempre favorevole alle aziende, specie quelle grandi, che possono permettersi esperti e legali per produrre le montagne di carte e certificazioni necessarie a passare i controlli.

E intanto chi lavora continua a morire.

Non si ripeterà mai abbastanza: le cause degli omicidi sul lavoro sono sistemiche e connaturate al modo di produzione capitalista. Sono la diretta conseguenza di condizioni volute e messe in atto da stato e padronato, con politiche pluridecennali che hanno causato un peggioramento generale della vita de* lavorat* segnata dal crollo dei salari, dalla sempre maggiore precarizzazione e dall’aumento dell’età pensionabile. Chi lavora per paghe da fame è più ricattabile, è costretto a ritmi più incalzanti, a fare più ore, a stancarsi di più, a farsi più male. A sua volta la precarizzazione consente alle aziende di avere mano libera nell’imporre ritmi sempre più serrati ed evitare l’utilizzo delle dotazioni di sicurezza. Pretendere carichi di lavoro adeguati o il rispetto delle norme di sicurezza può voler dire essere messi alla porta allo scadere dell’ennesimo contratto a termine. Ancora, carichi e ritmi di lavoro in costante aumento fino al cosiddetto “burnout” sono ormai la norma, specie in alcuni settori sia produttivi che di servizi, come la sanità e la logistica, non a caso due dei settori con la maggiore incidenza di infortuni e mortalità. Infine, le catene di subappalti ed esternalizzazioni, sia nel pubblico che nel privato, e il criterio del massimo ribasso nei lavori pubblici, causano una fortissima compressione dei diritti, dei salari e della sicurezza di chi lavora perché i profitti delle aziende sono assicurati non tanto dalla qualità dell’opera o del servizio fornito, quanto dallo sfruttamento sempre più spinto de* lavorat*. Il criterio del massimo ribasso gioca un ruolo importante perché le aziende, non potendo risparmiare più di tanto su materiali o energia o altri fattori di produzione, spremono al massimo chi lavora. Analogamente importante il sistema delle catene dei subappalti e delle esternalizzazioni, perché l’affidamento di parte del processo produttivo ad aziende esterne, ognuna delle quali deve avere la sua parte di profitti, crea una via preferenziale per un sistema di minori salari e tutele, oltre a favorire caporalato e lavoro nero.

Tutto questo, come già detto, non è accidentale, anzi, in un sistema capitalista è inevitabile.

Forse un governo più attento al mondo del lavoro potrebbe apportare qualche correttivo, abolire il massimo ribasso, o chissà che altro. Ma sarebbero sempre pannicelli caldi, se si resta all’interno del capitalismo.

L’unica soluzione è l’organizzazione di base de* lavorat*, che non possono più permettersi di delegare i propri diritti, i propri salari e le proprie vite a politici o confederazioni sindacali riformiste. Se è sui posti di lavoro che si muore, è sui posti di lavoro che bisogna agire, per un primo obiettivo minimo di fermare gli omicidi, pretendendo, non mendicando, sicurezza e condizioni dignitose. E poi, sia sui posti di lavoro che nella società, per l’obiettivo vero, che è quello di sottrarre la produzione e il resto delle nostre vite al controllo del capitale. Difficile? Estremamente. Ma altrettanto indispensabile.

J.Scaltriti

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